Al momento in cui scrivo, da poche settimane è stata pubblicata una notizia molto importante, che ci riguarda tutti. Si tratta di cacao, e quindi del cioccolato che mangiamo abitualmente, soprattutto quello che finisce nei prodotti delle più grandi industrie alimentari. Perché si tratta del cacao africano, di un po’ più bassa qualità rispetto a quello del Centro- Sud America, ma prodotto in grandissima quantità, base per milioni di prodotti nel mondo. Il cacao africano determina l’esistenza di 14 milioni di famiglie contadine che vi lavorano quotidianamente. Siccome il prezzo del cacao è stabilito, secondo criteri di mercato convenienti a chi compra, dalle borse di Londra e New York (e lo stesso avviene per il caffè), questi milioni di persone che sudano nei loro campi dipendono da cosa si decide in Europa e negli Stati Uniti: un prezzo che segna per le loro famiglie il passaggio altalenante da una povertà che si può sopportare alla miseria più becera, di anno in anno. Tanto per darvi un dato, il prezzo del cacao negli ultimi trent’anni si è ridotto di quasi due terzi e ha messo in crisi interi Paesi.
Questa è la notizia: gli otto maggiori produttori africani, nel summit sul cacao tenutosi in Nigeria alcune settimane fa, hanno deciso di dire basta a questa situazione che è una delle più grandi ingiustizie mondiali. Costa d’Avorio, Ghana (i due maggiori produttori al mondo), Nigeria, Camerun, Gabon, Sao Tomé e Principe, Togo e Uganda hanno deciso di unire le loro forze per far rispettare i sacrosanti diritti dei loro contadini e per smetterla di essere sfruttati dal Nord del globo.
Le dichiarazioni del presidente nigeriano, in occasione della sottoscrizione di questo accordo, non lasciano spazio a dubbi: “L’80% della produzione mondiale del cacao proviene dall’Africa, ma il suo consumo è soltanto del 2%.
Non consumiamo ciò che produciamo e si crea uno squilibro che mette Europa e USA nella condizione di dettare i prezzi a nostro svantaggio. È una situazione inaccettabile.”
I contadini africani coltivano una cosa che devono vendere senza consumare, senza possibilità di guadagnare a sufficienza. Poi, con i pochi soldi guadagnati, devono cercare di comprare ciò di cui hanno bisogno, il cibo soprattutto: ecco la povertà, ecco le coltivazioni a favore dei Paesi ricchi che sostituiscono quelle tradizionali e in grado di dare cibo, ecco la dipendenza e, infine, la fame dell’Africa. È molto difficile prevedere quali saranno gli sviluppi di questo accordo e se le esili economie di questi Paesi avranno la forza sufficiente di resistere per ottenere qualche successo. Il quadro è tutt’altro che roseo, ma bisogna apprezzare il gesto, il coraggio di dire no, la voglia di emanciparsi. Questo è il dato importante, storico. In Africa a coltivare il cacao, tra l’altro, non ci sono soltanto i piccoli contadini che sgobbano e si giocano il futuro della propria famiglia su pochi ettari, ma nelle grandi piantagioni ci finiscono immigrati dai Paesi più disperati e, addirittura, bambini.
Vi state chiedendo perché ho scritto all’inizio che questa notizia ci riguarda tutti? Beh, chi di voi non ha mai mangiato cioccolato? La prossima volta che fate una scorta di dolci e barrette, quando arrivate a casa e scartate le confezioni, mentre lo mangiate pensate un po’ alla strada che ha fatto, alle mani che si sono incallite per coltivarlo, magari alle ingiustizie perpetrate per farlo arrivare fino a voi. E decidete da che parte stare, scegliendo un po’ più accuratamente cosa comprate.
Intanto facciamo il tifo per questa nuova associazione di Paesi coltivatori di cacao, anche perché se il prezzo della materia prima dovesse aumentare, i ricarichi per noi sarebbero davvero esigui: a rimetterci di più, finalmente, sarebbero soltanto quelli che speculano sul lavoro altrui.
Autore: Carlo Petrini
Presidente Internazionale Slow Food
Anno: 2006/07